Differenza tra divisione transattiva e transazione divisoria e il rimedio rescissorio

La dottrina e la giurisprudenza da tempo riconoscono l’ammissibilità del rimedio rescissorio con riferimento alla figura della “divisione transattiva”, laddove si riscontri nel comune intento delle parti la preminente volontà di risolvere la controversia divisionale con l’attribuzione di valori proporzionali alle quote e di sciogliere la comunione (cfr. Cass. n. 1029/1994).

Viceversa, si versa nell’ipotesi di “transazione divisoria”, e, quindi, non rescindibile, quando il negozio giuridico viene posto in essere dalle parti senza tener conto della proporzionalità tra valore dell’asse e quota attribuita (elemento essenziale del negozio divisorio) per dirimere o prevenire controversie insorgenti dallo stato di comunione, così integrando una transazione in senso proprio.

Pertanto, come precisato dalla Corte di Cassazione, al fine di stabilire se si è in presenza di una “transazione divisoria”, non è sufficiente constatare che l’atto intervenuto tra le parti contenga una contestuale transazione, dovendosi ancora accertare che l’accordo, regolando ogni controversia, anche potenziale, in ordine alla determinazione delle porzioni corrispondenti alle quote ereditarie, abbia avuto ad oggetto proprio le questioni costituenti presupposto ed oggetto dell’azione di rescissione, allo scopo di evitare l’insorgere di liti o per porre termine a liti già sorte sull’attribuzione delle porzioni, senza procedere al calcolo di queste nelle misure corrispondenti alle quote (cfr. Cass. n. 20256/2009).

E’ configurabile, invece, una “divisione transattiva” ogni qualvolta si accerti che le parti, con le espressioni usate nel negozio transattivo, non abbiano affatto voluto porre termine ad una disputa sulle “stime” (correndo, per l’effetto, l’alea reciproca di assegnare cespiti di valore inferiore oltre il quarto alla rispettiva quota), ma soltanto manifestato l’intendimento di procedere alla divisione con l’attribuzione di valori proporzionali alle quote e di sciogliere la comunione senza esasperazione delle stime medesime (cfr. Cass. n. 8448/1997).